Vuoto d’amore e disagio emotivo – parte 1

Salute Mentale amore disagio

Vuoto d’amore e disagio emotivo

Nelle storie che i pazienti mi raccontano si nascondono le difficoltà e i problemi che li hanno indotti a chiedere aiuto per un vuoto d’amore e disagio emotivo

Di cosa parliamo quando ci ritroviamo da soli ad una tavolata di coppie della nostra età che scambiano per ore in tema di feste dell’asilo, di parchi attrezzati e dei giochi più divertenti da fare con i loro bambini? A chi telefoniamo quando vorremmo vedere quel film al cinema che aspettavamo da tempo? Con cosa ci misuriamo quando rientrando a casa stanchi dal lavoro troviamo la tavola da apparecchiare e il frigo aperto sulle monoporzioni che le grandi catene di supermercati hanno iniziato a vendere ai “single”?

“Spazio datemi spazio, ch’io lanci un urlo inumano, quell’urlo di silenzio negli anni, che ho toccato con mano.” È la voce di Alda Merini, nella sua raccolta poetica “Vuoto d’amore” che si mescola alle immagini del vuoto affettivo che negli anni ho raccolto durante la pratica psicoterapeutica. Parole e immagini arrivano a me amalgamate con quelle che prefigurano la speranza di un cambiamento, nel momento in cui mi fermo, per scrivere questo articolo.

Il desiderio di coppia, una maternità mai raggiunta, la rabbia e il dolore che ritorna ogni volta che un rapporto si conclude sono i temi che ruotano intorno al “vuoto d’amore”.Nelle storie che i pazienti mi raccontano si nascondono le difficoltà e i problemi che li hanno indotti a chiedere aiuto.

La storia di S.

S., quando è arrivata al nostro primo appuntamento, mi disse che non era certa di riuscire a fermarsi fino al termine della seduta. “Il bruciore allo stomaco è molto aumentato non appena ho iniziato a parlarle della mia storia finita ancor prima che potesse iniziare e non ho con me le pastiglie” mi disse mentre i suoi occhi rossi testimoniavano la sua notte insonne. “Può fermarsi qui e chiamarmi per un nuovo appuntamento” le dissi.

Accogliendo il timore di essere riuscita per la prima volta ad aprire una porta su emozioni che la spaventavano enormemente, osservai il suo volto distendersi. E continuò: “La ringrazio dottoressa, posso aggiungere ancora una cosa che forse è importante che io le dica subito, così che lei mi dica se ha senso che io torni.” Da lì in poi sono trascorsi 50 minuti fino al momento in cui le chiesi come stava il suo stomaco. La sua espressione stupita è ancora vivida in me nonostante gli anni trascorsi.

“Io non sento più bruciore e … vorrei prendere un nuovo appuntamento” – rispose. “Quando una donna si accorge che la rabbia non la uccide, né uccide altri, né le capita di andare in pezzi quando la libera, essa cessa di essere un motivo d’ansia e diventa uno strumento” scrive Snyder (M. Valentis, A. Devane, Donne che non hanno paura del fuoco, Frassinelli, Milano, 1996).

“…sappiamo bene che il nostro pianeta
fa parte dell’universo,
ma rimangono degli abissi incomprensibili
che nessuno riesce a colmare,
per quanto la loro storia
ci venga raccontata in tutti i dettagli.”

da In gratitudine
di Jenny Disky

A volte è sufficiente permetterci di “stare” in un primo incontro di conoscenza. “Stare” fino al termine di quella prima seduta per S. ha coinciso con il comprendere di voler “fare un passo oltre” l’emozione che l’aveva spinta fin lì. La scelta di “stare” in genere arriva quando avvertiamo di essere accolti con quel che c’è: rabbia, paura, ansia, dolore. La solitudine e il dispiacere di non riuscire a mantenere una stabile relazione di coppia sono altri vissuti condivisi negli anni, da uomini e donne, che in momenti diversi della loro vita hanno deciso “di fare quel passo oltre”.

Il neuropsichiatra francese Boris Cyrulnik, che molto ha scritto in tema di “resilienza”, nel suo ultimo libro “La nuit, j’écrirai des soleils” (Odile Jacob, Paris, 2019) descrive con molta chiarezza come un adulto può sentirsi quando nella sua storia sono presenti le tracce di un bambino privato degli affetti, nei primi anni della sua vita. “Il mondo mentale di un bambino non può che riempirsi di quello che gli altri gli trasmettono: i sorrisi, la rabbia, la tenerezza, le cure.

Quando non c’è nessuno intorno al bambino, il solo oggetto esteriore sono le sue mani che guarda girare, i suoi piedi che non smette di agitare o i suoi dondolamenti che innescano un vago sentimento di esistere, un evento povero. Un bambino senza l’Altro non può costruire la sua intimità perché niente è iscritto nella sua memoria. Quando l’ambiente è vuoto, lì, è una traccia di vuoto che si impregna nella sua anima, e non è un ricordo” (Traduzione a cura dell’autrice).

Un discreto numero di quei pazienti (alle prese con il dolore della mancanza di una relazione di coppia) ha riportato in terapia l’assenza di un riferimento affettivo sicuro nell’ambiente familiare in cui sono cresciuti. C’è una parola giapponese che ci può avvicinare alla resilienza e quindi alla capacità di trasformare un evento difficile e destabilizzante nel punto da cui partire per ristrutturare la propria vita in termini positivi.

Si tratta del “Kintsugi” o “Kintsukuroi”: l’arte di riparare con l’oro (la tecnica giapponese consiste nella riparazione di un oggetto rotto, utilizzando l’oro per riempire la crepa. Le cicatrici, che così si creano, rendono l’oggetto ancor più prezioso, di quanto lo fosse in origine).

Durante la psicoterapia possiamo parimenti scoprire che le cicatrici di alcune ferite riportate nel corso della nostra esistenza, se adeguatamente accolte, elaborate ed integrate, possono mostrarci risorse vitali preziose. Il processo può essere impegnativo, tuttavia quando le persone iniziano a intravedere questa possibilità spesso hanno già scelto. E la direzione è quella del muoversi attivamente per cercare amore, serenità o forza, a partire da quello che c’è.

Gladys Pace
Psicologa-psicoterapeuta, specialista in Psicologia clinica

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