Un cervello in salute

Salute Mentale cervello

Oggi la malattia neurologica non è più una condanna, ma è sempre meglio “pensarci prima”

Curare il cervello migliora la vita. Questo il fil rouge che ha legato tutti i temi al centro della settima edizione della Settimana mondiale del cervello, promossa in Italia dalla Società italiana di neurologia (Sin) e celebrata con una serie di iniziative (incontri, eventi, workshop, mostre e conferenze) sparse sull’intero territorio nazionale.

Al centro dell’evento, dunque, la neurologia e gli importanti passi avanti che la ricerca e la farmacologia hanno compiuto nel trattamento delle malattie di cui si occupa questa branca della medicina. Presentando la Settimana, Leandro Provinciali, presidente della Sin, ha voluto lanciare un’esortazione che è al contempo un messaggio di speranza: «Oggi avere una malattia neurologica non equivale più a una condanna, perché si può sempre fare qualcosa per trattare o migliorare le condizioni di chi ne soffre, e soprattutto per prevenirle».

Le novità

La prima buona notizia è che sono finalmente in calo i casi di ictus, e questo nonostante l’invecchiamento della popolazione italiana, con un indice di over 75 pari al 33 per cento. Dati recenti indicano, infatti, che negli ultimi vent’anni l’incidenza di primi episodi di ictus, sia ischemici sia emorragici, è diminuita del 29 per cento. Per Elio Agostoni, direttore del dipartimento di Neuroscienze e della S.C. Neurologia e stroke unit del Niguarda di Milano, «è ragionevole attribuire questo successo all’aumento e al miglioramento delle strategie preventive, ma anche a un miglior controllo dei fattori di rischio vascolare e al ruolo della chirurgia vascolare».

Ma poiché prevenire è meglio che curare, gli specialisti concordano che le strategie per difendersi dall’ictus sono tanto più efficaci quanto prima si inizia a vivere in maniera salutare e si effettuano esami e visite periodiche di controllo.

Anche la battaglia contro le malattie neurodegenerative può sperare sull’arrivo di nuove armi ma fondamentale è la diagnosi precoce, se si vuole arrestare un’epidemia silenziosa che nel nostro Paese vede già un milione circa di pazienti affetti da demenza. «Grazie alle scoperte della biologia molecolare e della genetica, oggi sappiamo che cosa determina la progressiva perdita dei neuroni e dei loro collegamenti», spiega Carlo Ferrarese, direttore scientifico del Centro di neuroscienze dell’Università di Milano-Bicocca e direttore della Clinica neurologica dell’ospedale San Gerardo di Monza.

Alla base di tali patologie c’è l’accumulo di particolari proteine (nell’Alzheimer è la beta-amiloide) normalmente presenti nel cervello, che per predisposizioni genetiche o fattori ambientali vengono prodotte in eccesso o non vengono adeguatamente rimosse, per cui tendono a danneggiare le cellule nervose (neuroni) e i loro collegamenti (sinapsi), con la successiva perdita delle funzioni di determinate aree cerebrali. Attualmente sono in fase avanzata di sperimentazione strategie terapeutiche basate su molecole che riducono la produzione di beta-amiloide o, in alternativa, di anticorpi prodotti in laboratorio, capaci addirittura di determinare la progressiva scomparsa di beta-amiloide già presente nel tessuto cerebrale.

Ora, grazie ad alcuni esami, si cerca di individuare pazienti in fase molto precoce per capire se, in questi soggetti, le nuove strategie possano prevenire l’esordio della malattia.
Comunque, anche per l’Alzheimer la prevenzione gioca un ruolo fondamentale: stili di vita adeguati come la corretta alimentazione e in particolare la dieta mediterranea, ricca di sostanze antiossidanti naturali, ma anche l’esercizio fisico e una vita sociale soddisfacente agiscono da fattore protettivo non solo nei confronti dell’Alzheimer ma più in generale delle varie forme di demenza esistenti.

Il parkinson

Infine per il Parkinson, malattia degenerativa che comporta disturbi motori a seguito della compromissione di alcune cellule nervose situate in varie aree del cervello, da Leonardo Lopiano – ordinario di Neurologia all’Università di Torino e direttore di Neurologia 2 presso la Città della salute e della scienza di Torino – apprendiamo come recentemente sia entrata nella pratica clinica un’importante terapia interventistica per i pazienti in fase avanzata.
Si tratta dell’infusione intestinale continua (tramite catetere) di levodopa, che ottimizza la somministrazione del farmaco e i suoi effetti. Levodopa agisce trasformandosi nell’organismo in dopamina, neurotrasmettitore deputato, tra l’altro, al controllo del movimento e che risulta deficitario a livello cerebrale nei pazienti con malattia di Parkinson.

Claudio Buono

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