L’attacco di panico – parte 1
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Un appello disperato all’altro: l’attacco di panico!
“Improvvisamente non capivo più niente! Il cuore batteva all’impazzata e non sapevo cosa fare! Un senso di vuoto si è impadronito di me! Non riuscivo più ad uscire di casa se non accompagnato! Avevo perso ogni controllo e mi sentivo morire!”
Le sensazioni
Sono alcune delle espressioni che con sempre maggiore frequenza giungono all’ascolto dello psicoanalista nei primi incontri svolti al Centro Psicoanalitico di trattamento dei malesseri contemporanei con persone sofferenti che, a fatica, tentano di raccontare il vissuto di angoscia e smarrimento incontrati nella loro vita. Compito difficile se non impossibile, quello di esprimere a parole un’esperienza che, piuttosto, mette in primo piano il corpo coi suoi battiti accelerati, le vertigini, la nausea, i sudori, la perdita improvvisa di controllo di sé e dell’altro.
La medicina e buona parte della psicologia denominano “attacco di panico” quest’esperienza di rottura e smarrimento soggettivo che segna una profonda frattura nel senso di continuità della propria esistenza, determinando un prima e un dopo, del tipo: “Non potrò mai più essere come prima e non sarò mai più sicuro del domani”. Il sentimento che si sia prodotto qualcosa di irreparabile e la paura che possa ripetersi in futuro indica come l’attacco di panico sia vissuto come una vera e propria minaccia alla propria identità, una sorta di “catastrofe soggettiva” in cui ogni appiglio viene meno e dove anche la differenza spazio-temporale vacilla.
Freud
Per alcuni aspetti quest’esperienza di smarrimento e impotenza richiama quel sentimento di perturbante estraneità di cui Freud parla in un saggio del 1919 intitolato non a caso Il perturbante. Qui l’autore precisa come il sentimento del perturbante corrisponda all’irruzione improvvisa di un’estraneità spaventosa e inquietante in ciò che il soggetto considerava fino a quel momento famigliare e rassicurante.
Per spiegare questo rovesciamento dal famigliare al perturbate e viceversa, Freud narra un simpatico episodio accadutogli nella carrozza di un treno dove, ad un tratto, dal finestrino vede comparire davanti a sé l’immagine di uno sconosciuto. La reazione di sgomento e angoscia troverà pace nel momento in cui Freud riconoscerà nell’immagine dell’estraneo nient’altro che l’immagine propria riflessa nel finestrino.
Egli conclude che al cuore dell’immagine narcisistica e rassicurante su cui l’Io si sostiene esiste un’estraneità reale, rimossa, con la quale, volenti o nolenti, siamo chiamati a fare i conti.
La psicanalisi
La psicoanalisi, lungi dal ridurre il sintomo ad un disturbo da eliminare, lo considera come un tentativo di risposta a questa estraneità reale e angosciante che alberga l’essere parlante e pertanto come una risorsa soggettiva che svolge, pur nella sofferenza, una funzione importante nell’economia soggettiva, funzione della quale occorre tenere conto nel trattamento. L’analista sa, per averne fatto egli stesso esperienza nella sua analisi, che la parola può incidere sul sintomo ed avere effetti terapeutici, a condizione, in primis, di fare posto alla parola del paziente e al sapere inconscio che da questa può scaturire.
Nel panico, in questo turbamento dal carattere straordinario che a livello del fenomeno appare manifestarsi in maniera simile in persone differenti, Freud rintraccia di fatto la presenza di un tratto assolutamente singolare riconducibile ad esperienze che pongono le loro radici nell’infanzia del soggetto e che, dato il loro carattere penoso e insensato, erano state espulse più o meno radicalmente dalla coscienza. In questa prospettiva l’attacco di panico corrisponderebbe alla riattualizzazione di alcune rappresentazioni infantili rimosse dal bambino, e pertanto divenute inconsce, che fanno il loro improvviso ritorno sulla scena a partire da nessi associativi che sfuggono al ragionamento logico e lineare della coscienza.
La psicoanalisi suppone pertanto che il soggetto detenga un sapere a lui stesso sconosciuto, circa un’esperienza di cui, a ragione, l’Io non sa dirne quasi nulla. Lungi dall’avere l’obiettivo di consolidare le difese dell’Io nel tentativo illusorio di dominare quell’inquietante estraneità che si è introdotta in “casa nostra” senza chiedere il nostro permesso, la psicoanalisi offre piuttosto la possibilità a ciascuno di reperire il conflitto psichico inconscio che presiede la formazione dei sintomi e di trovare, uno per uno, le risorse singolari per farvi fronte in maniera inventiva.
La sofferenza può allora divenire il motore di una ricerca personale sul possibile significato di un certo disagio che può ora trovare la via della parola per esprimersi e per particolarizzarsi all’interno della propria storia e dei legami che la contraddistinguono.
Sergio Caretto
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