Vorrei sapere se tutto questo è NORMALE

Capita sempre più di frequente che qualcuno si rivolga al Centro psicoanalitico per domandare se questo o quel modo di essere del proprio bambino sia da considerarsi “normale”. Si tratta di una domanda che è spesso suggerita al genitore da altre figure che con il bambino hanno a che fare. Talvolta, sulla scorta di questo dubbio, la madre e/o il padre hanno già consultato degli specialisti, sottoposto il bambino a test e controlli di vario genere, senza che questa serie di accertamenti permettesse di formulare una qualche diagnosi capace di spiegare “quel che non va”.
Vorrei sapere se sono io – dice una madre che telefona al Centro – che non mi rendo conto o se davvero mio figlio non è normale. A scuola mi dicono che devo farlo vedere da qualcuno, ma io l’ho fatto, ho consultato anche un neuropsichiatra e non risulta niente.
Chi la ascolta accoglie innanzitutto l’angoscia che questa donna porta con la sua domanda, invitando lei a passare al Centro, se lo desidera, per dire qualche parola in più sull’assillo che la tormenta.
Al Centro psicoanalitico, da molti anni, è aperto uno Studio Bambini. Un bambino, ciascun bambino in modo diverso, può patire di una grande sofferenza soggettiva. A differenza dell’adulto, però, il bambino non rivolge all’altro la propria domanda di cura, è sempre un adulto a farlo per lui o per lei. Questa domanda dell’adulto merita, a propria volta, di essere opportunamente ascoltata. Per quanti libri ci si affanni a pubblicare sul modo più corretto di essere genitore, non esiste infatti alcun manuale d’istruzioni che possa dire a una madre o a un padre come fare con il proprio bambino, essere unico e irripetibile, come unica e irripetibile è la contingenza in cui quel piccolo d’uomo è venuto al mondo. I manuali possono fornire solo regole generali, uguali per tutti, incapaci di tener conto delle differenze soggettive, storiche, di quello che, in fondo, fa la singolarità di ciascuno, adulto o bambino che sia. Un po’ come quando, rispondendo a uno dei tanti questionari che oggi, in ambiti diversi, ci vediamo somministrare, fra le scelte multiple che ci vengono offerte non riusciamo a trovare la risposta che vorremmo formulare: il nostro caso è unico, non è contemplato fra le caselle da crocettare.
Il discorso scientifico si fonda su affermazioni universali. Anche scienze più empiriche, come la medicina, cercheranno di formulare delle generalizzazioni che valgano per il maggior numero di soggetti possibili. Una diagnosi è questo, una classe generale alla quale potranno essere ricondotti dei casi particolari. Il particolare, però, resta solo un caso dell’universale, non vale in sé, nella sua unicità irripetibile. Per questo ogni volta che ci sentiamo o sentiamo attribuire al bambino un’etichetta diagnostica, qualcosa in noi si ribella. Non c’è tutto in quel nome che viene assegnato, non c’è la storia, non ci sono le parole, non ci sono i legami, non c’è la stoffa di una voce e di uno sguardo, solo una definizione che non riesce ad afferrare fino in fondo l’esistenza.
Spesso, chi si rivolge alla psicoanalisi, bussando alla porta del Centro psicoanalitico, lo fa perché cerca qualcuno che sia pronto ad accogliere quello che la diagnosi ha tagliato fuori, per dire l’eccedenza che ogni singolarità comporta rispetto alla norma e all’universale.
Ma accade anche, come mostra il breve frammento iniziale, che l’urgenza della domanda stia tutta nel fatto che non c’è neppure una diagnosi in grado di stabilire se il proprio figlio è “normale”.
Viviamo in un’epoca in cui a genitori, educatori, insegnanti è domandato di rintracciare, quanto più precocemente possibile, i segni di un eventuale disturbo del bambino. Ogni comportamento, che si discosti da una “norma”, statisticamente fissata – e che non tiene conto dell’evoluzione singolare di ogni bambino, della sua storia e delle sue contingenze di vita – può essere preso come l’indizio che qualcosa non va. Si rischia, in questo modo, di destare un allarmismo eccessivo, di sollecitare ogni adulto a sorvegliare, con meticolosa attenzione, ogni piccolo sussulto del bambino, non considerando che gli inciampi, i ritardi, le impasse, sono inevitabili nel percorso di crescita. In questo scenario in cui tutti i bambini sono potenzialmente bambini malati, si rischia, per altro verso, di trascurare quella che può essere una reale sofferenza soggettiva. Se la sofferenza, infatti, è presa come il segno di un disfunzionamento, può capitare che l’adulto cerchi di evitare di rivolgersi a qualcuno per non dover incorrere in una diagnosi che spaventa.
Nell’uno, come nell’altro caso, ciò che finisce per essere cancellato è il posto, per l’adulto e per il bambino, in quanto soggetti di un dire e in quanto presi in un legame che, al pari di tutti gli altri legami, porta con sé qualcosa di insopportabile. Al di là di qualsiasi etichetta diagnostica, infatti, a volte è proprio ciò che disturba l’adulto, nella sua relazione con il bambino, a dover essere accolto e ascoltato, così da consentire al genitore o all’insegnante di placare la preoccupazione che lo assilla e che non manca di farsi sentire nel legame. In altri casi, sarà opportuno che anche il bambino possa incontrare un terapeuta, con l’aiuto del quale trattare la propria sofferenza soggettiva, senza trascurare l’effetto che questa sofferenza può produrre in coloro che sono in relazione con lui.
A ciascuno il proprio posto di parola, a ciascuno la possibilità di costruire una “normalità” a propria misura.

Ilaria Papandrea
Centro Psicoanalitico di trattamento dei malesseri contemporanei – onlus – Torino
www.cepsi.it
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