Violenza nel legame e fuori legame

Constatiamo spesso il prodursi di fenomeni di violenza. Notizie che riguardano aggressioni nei confronti di donne, bambini, persone che si trovano ai limiti del legame sociale, vanno a volte a riempire le pagine di cronaca dei giornali, oppure entrano con le loro – in un modo che ci sembra essere più reale – nelle varie protesi multimediali che utilizziamo.
Abbiamo un accesso diverso a tali situazioni ascoltando le persone che si rivolgono ad un’associazione come il Centro Psicoanalitico di trattamento dei malesseri contemporanei, nell’ambito dell’Accoglimento o del Trattamento.
Ci capita, in questo modo, di ascoltare discorsi in cui sono presenti situazioni di violenza, e non manchiamo a volte di essere testimoni di condizioni soggettive che sono l’effetto di legami in qualche modo violenti.
La violenza non è soltanto quella agita. Questa forma di violenza è particolarmente disdicevole e vorremmo, in quanto soggetti umani, che non esistesse. La storia dell’umanità, così come l’attualità, ci mostrano che per ora la sua sparizione sia da considerarsi soltanto un’illusione. Esistono, nei legami e tra i legami dei soggetti, molte altre forme di violenze che diventano causa di malessere e di sofferenza.
Grazie all’esperienza della psicoanalisi impariamo, prima di tutto in quanto analizzanti, che non sia tanto possibile parlare della violenza come se ce ne fosse solo un tipo.
Nella nostra esperienza clinica impariamo man mano a distinguerne diverse qualità. Se prendiamo come esempio una situazione attraverso la quale passa ogni bambino piccolo, cioè il passaggio che va dall’essere allattato al seno all’iniziare ad essere nutrito con altri alimenti (passaggio che viene chiamato svezzamento), esso non è soggettìvamente vissuto da ciascun piccolo come una forma di violenza? Non è una violenza, per il soggetto infantile, il non avere il privilegio del seno materno tutto per sé, né avere più a disposizione una fonte certa ed inesauribile non tanto di nutrimento, quanto di soddisfazione? Eppure, solitamente, questo momento di taglio, di separazione, prima o poi avviene. Anzi, i pediatri, i clinici, chiunque si occupi d’infanzia e di bambini, direbbero che proprio il contrario costituirebbe una violenza.
Ogni momento di passaggio può essere vissuto in qualche misura da un soggetto come una violenza: quello dalla scuola materna alla scuola primaria, il momento in cui si ottiene un diploma o una promozione, quando si diventa moglie o marito, madre o padre, ecc. Giacche ogni volta, in questi momenti, l’ordine simbolico produce un taglio, sollecitando il soggetto ad una specie di risistemazione e di riordinamento della propria soggettività a partire dai nuovi punti di riferimento. È la più profonda intimità del soggetto quella che viene messa in subbuglio in tali circostanze ed egli è chiamato a ritrovare un nuovo equilibrio. Non si tratta di certo di situazioni piacevoli; esse mettono il soggetto duramente al lavoro.
Possiamo cogliere, però, che la violenza (o il trauma, se preferiamo), in questi esempi che abbiamo cercato di delineare, sebbene non possa fare a meno di irrompere nella soggettività con irruenza, è in qualche modo temperata poiché inserita in un ordine simbolico. Essa è, anzi, parte integrante di quel mondo. Può sembrare arbitraria 0 capricciosa al soggetto, ma in realtà non lo è. Ciò fa un’enorme differenza sul piano degli effetti soggettivi che produce. È impossibile che degli effetti traumatici non si producano e questi, ciascun soggetto, potrà affrontarli lungo la propria esistenza attivando delle risorse talvolta inedite. Se alcuni soggetti possono attraversare dei momenti di passaggio in modi non particolarmente problematici, per altri invece ciò si produce in modo diverso.
I primi testimoniano il fatto che un taglio simbolico, strutturale, sia in essi operativo dal punto di vista soggettivo. Ciò consente loro di accettare infine, ogni volta, i diversi tagli che il vivere comporta.
Per i secondi, invece, quel taglio non è operativo, non si è iscritto nel loro apparato psichico, ragion per cui i momenti di passaggio, di separazione, gravidi di significato simbolico (come ricevere una nomina, diventare padre, ereditare un patrimonio, ecc.) possono essere causa di difficoltà e di sofferenza soggettiva rilevanti.
Inoltre, per questi soggetti, un certo elemento che appartiene all’essere umano e lo caratterizza, la parola, non essendosi in loro iscritto l’ordine simbolico da un punto di vista strutturale può essere fonte reale di violenza. Infatti, nella clinica, ma non solo li, si fa esperienza del fatto che in certe condizioni soggettive una parola può esercitare una violenza dirompente su qualcuno, scatenando in lui o in lei a sua volta della violenza verbale o agita.
Per il soggetto si tratta, in queste condizioni, di una parola impossibile da soggettivare e perciò violenta, che può produrre degli effetti reali di grande sofferenza soggettiva. Quando un soggetto è immerso in una logica di questo tipo non possiamo del tutto scartare che non possa anche lui, se si producono delle condizioni specifiche, essere spinto da qualcosa che egli non sarà in grado d’identificare a dei passaggi all’atto violenti. Sebbene non sia possibile in relazione a ciò esercitare un qualche tipo di trattamento preventivo, qualche cosa invece si può fare a partire da un ascolto avvertito. Violenza genera violenza, si sente dire. Sì, ma in che senso?
Nel senso che ciascun essere umano è il prodotto di un nucleo non del tutto simbolizzabile (perciò, potenzialmente fonte di violenza), nucleo che sovente cerchiamo di combattere e di rigettare. Ecco la prima violenza che viene commessa: quella nei confronti del nucleo più intimo del proprio essere, il quale però si ribella sempre dall’essere vittima di un tale rigetto.
L’esperienza della psicoanalisi ci insegna, come diceva Sigmund Freud, che spesso la via più breve per risolvere un problema non è quella che porta realmente alla sua risoluzione.
Quest’ultima passa attraverso tutti i sentieri che il soggetto medesimo dovrà percorrere, senza ovviarne nessuno, portando però con sé il suo nucleo più intimo, quello che cerca di rigettare perché troppo estraneo, con la finalità. di trovare il soggetto stesso – un modo suo, nuovo, di allearsi con esso.
Per la psicoanalisi l’unica prevenzione possibile passa attraverso una politica dell’inclusione di dò che di se stesso è troppo estraneo per il soggetto; una politica che orienta la pratica clinica e che, perché no, potrebbe arrivare ad orientare anche altre pratiche in diversi campi del sociale.

Maria Laura Tkach
Psicoanalista.
membro della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi.
Presidente del Centro Psicoanalitico di trattamento dei malesseri contemporanei – onlus

® NOTIZIE PER TE – Farmauniti