Stranieri a noi stessi – parte II

È stato anche interessante leggere i dati raccolti in quest’ultimo anno per cogliere come il 90% di coloro che durante il percorso di cura si sono detti gay, piuttosto che omosessuali o lesbiche, lo hanno fatto non a partire da una domanda esplicita del terapeuta e tanto meno dalla compilazione di un questionario anonimo. Questa dichiarazione per ciascuno di loro si è prodotta in modo differente, ma nella maggior parte dei casi questa dichiarazione d’identità sessuale si è prodotto in e come un momento cruciale della cura. Cruciale perché è proprio a partire da come questa dichiarazione è stata accolta dal terapeuta che la cura è proseguita, si è interrotta, così come ha trovato in essa una soluzione rapida al proprio disagio. Un disagio che, non dobbiamo dimenticare, si situa sia nel soggetto che giunge a domandare di essere ascoltato da un terapeuta, che nel sociale in cui è inserito.
Questo rivolgersi ad un Altro in grado di offrire un ascolto orientato a questo disagio, per il 70% dei soggetti incontrati ha assunto la portata di un momento di svolta in grado di mettere i pazienti in contatto con il loro particolare modo di far legame con l’Altro. Le difficoltà di relazione col partner sono, in questi dieci anni, sempre rimaste al primo posto, facendo una sorta di hit-parade, delle motivazioni che spingono a domandare un appuntamento con un terapeuta. Ne sono un esempio le domande: perché continuo ai fare coppia con chi non fa altro che maltrattarmi? Perché continuo a nascondere il mio amore? Perché mi ha lasciato? Eppure facevo di tutto per lui/lei. Forse è a causa ella mia omosessualità che ho necessità di cambiare così di sovente posto di lavoro? È possibile cambiare lavoro così come cambio sovente i miei compagni?
Ritroviamo in queste frasi la struttura della domanda e del riconoscimento d’amore che un soggetto rivolge ad un altro soggetto della coppia amorosa. Nella coppia dell’amore a domandare ed a rispondere non sono il genere femminile o maschile degli individui che salgono sulla scena, ma la loro soggettività, così come mi fece subito notare nel primo colloquio un giovane uomo venuto a consultare un terapeuta al Centro Psicoanalitico:
– Cosa ne pensa degli omosessuali? mi domanda.
– Non penso nulla – gli rispondo – ma ritengo che un omosessuale è prima di tutto un soggetto e, come non esiste perla psicoanalisi un soggetto uguale ad un altro, non mi è ancora capitato di incontrare un omosessuale uguale ad un altro.
Questo soggetto, preso un secondo appuntamento, tornò a dire che fu proprio questa risposta a consentirgli, dopo numerosi tentativi, di decidere di fermarsi e dar fiducia al luogo a cui si era rivolto per prendersi, come mai aveva trovato modo di fare prima, il tempo necessario per dar voce a ciò che ignorava della sua sofferenza. Egli prendendo posto in questa nuova relazione di cura non a partire da uno standard, da un giudizio o da un sapere saputo dall’altro, ma a partire dalla sua posizione d’eccezione, in quanto soggetto non uguale ad altri, ha potuto rintracciare come il suo sentirsi senza risorse, quando era stato lasciato dal compagno, fosse connesso al suo essersi sentito lasciato cadere dal padre nella sua infanzia.
Si tratta, nell’avviare l’ascolto di un soggetto in un percorso di cura orientato dalla psicoanalisi, di mettere subito in evidenza che per l’Altro a cui ci si è rivolti non si tratta di desiderio di curare o guarire qualcuno da un deficit o chissà quale anomalia sessuale, ad esempio. Si tratta prima di tutto di accogliere e quindi di far emergere lo stile proprio a ciascuno e di riuscire a fare con ciò che non va o che ad un certo punto inizia a vacillare nella propria vita.
Ne sono effettivamente un esempio l’85% dei soggetti che hanno portato al Centro Psicoanalitico la loro particolare questione sull’omosessualità. Quest’ultima è infatti emersa nella sua doppia accezione: quella positiva di un’identità sessuale scelta con consapevolezza e diritto, e quella negativa d’aver individuato nell’omosessualità un nome con cui riuscire a dire la propria impotenza nel sovvertire le sorti di un destino che li vedeva, ad esempio, sempre come colui o colei che in amore vengono lasciati; oppure, come il segno della propria impossibilità a vivere bene; ma per fortuna sempre più soggetti, oggi, hanno portato con sé la prospettiva di poter, un giorno, amare ed essere amati come ritengono di meritare, non a partire dalle loro similitudini, o dalla loro classe o genere d’appartenenza, ma a partire dalle differenze che ci lasciano stranieri l’uno per l’altro e noi per noi stessi.

Gian Francesco Arzente
socio del Centro Psicoanalitico di trattamento dei malesseri contemporanei

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