Sofferenze SENZA nome

SOFFERENZE DEL “SENZA”
Nella vita di ciascuno può accadere di soffrire nel corpo o nel pensiero senza sapere il perché e senza che la medicina riesca a pronunciare una diagnosi e a dare un nome al malessere che proviamo. Talvolta, anche in presenza di una diagnosi medica o psicologica, può capitare che essa non basti per rendere ragione di una sofferenza insensata e immotivata, in quanto non imputabile
nella vita quotidiana ad alcuna condizione in grado di giustificarla, o addirittura paradossale poiché concomitante ad eventi da lungo tempo attesi e desiderati: il matrimonio, una promozione, la pensione, la nascita di un figlio, la guarigione da una malattia… “Avrei dovuto essere felice è invece mi è crollato il mondo addosso!”. Si tratta di momenti in cui il soggetto può trovarsi disarmato e senza appigli nell’affrontare un vuoto di senso che ne minaccia l’esistenza condotta fino a quel momento. Depressione è spesso il nome che l’altro della medicina da a questa sofferenza caratterizzata dal “senza”: senza nome, senza senso, senza desiderio, senza appigli… In fondo, a ben pensarci, si tratta di sofferenze che pongono in primo piano la condizione di isolamento del soggetto contemporaneo, sempre più spinto a rivolgere la propria attenzione agli oggetti di consumo piuttosto che a cercare una soddisfazione nella relazione coi simili. Un soggetto pertanto che vive una condizione di precarietà simbolica, ideale e affettiva, prima ancora che economica.
SOFFERENZE DEL “PIÙ”
Così come esistono sofferenze che brillano per il loro carattere di non senso, di vuoto e di assenza, all’opposto possiamo trovare situazioni in cui il soggetto lega in maniera inscindibile il suo malessere ad una condizione a lui “esterna” che gli appare indubitabile nel suo valore causale: il rapporto insoddisfacente col partner, coi genitori, col professore, con gli amici; o ancora l’irruzione di una malattia nel corpo, la perdita di una persona cara e via dicendo. In questo caso, in maniera più o meno accentuata, la persona tende a considerarsi “vittima” e a lamentarsi di un altro o di circostanze a lei sfavorevoli, di fronte alle quali nutre un senso di impotenza. Senza negare il fatto che la vita e i legami cari a ciascuno ci riservano immancabilmente delle “sorprese” di cui faremmo volentieri a meno per il loro carattere spiacevole o addirittura tragico, ciò che qui mi preme sottolineare è piuttosto la difficoltà del soggetto a rispondere in maniera singolare e creativa a quanto lo fa stare male. Possiamo riassumere così questa posizione soggettiva che situa nell’altro la causa o, ancor meglio, la colpa, dei propri mali: “È tutta colpa tua se sto male!”. Formulazione questa che il più delle volte ne cela un’altra che logicamente la precede: “La mia felicità dipende da te”. Se prendiamo quel fenomeno di disagio denominato stolking, in cui una persona denuncia di essere fatta oggetto di vessazioni ripetute e prolungate nel tempo da parte di un partner – sia esso il datore di lavoro, l’amante o il collega – possiamo dire che in questi casi la sofferenza tende a prendere il nome del “persecutore”. Al limite questo “persecutore” a cui imputare le proprie disgrazie può divenire la propria immagine del corpo mai conforme a quella idealizzata da cui ci si vedrebbe più belli e amati, piuttosto che prendere la forma e i nomi delle più diverse dipendenze: gioco, droga, sesso, internet…
Dalle sofferenze caratterizzate dal “senza” siamo quindi passati a quelle il cui tratto è invece l’eccesso, il “più”. Mania è spesso il nome con cui la medicina definisce questa spinta irresistibile al più: più di legami virtuali, più di sesso, più di consumo, più di lavoro, più di sport, più di più… La condizione maniaco-depressiva in fondo segnala come queste due polarità in cui il disagio trova espressione e che in apparenza sembrano tanto distanti tra loro, di fatto si rovesciano facilmente l’una nell’altra senza soluzione di continuità. Alcuni sintomi quali ad esempio l’anoressia – bulimia mettono bene in scena questo repentino passaggio da una condizione in cui prevale il rifiuto, il “senza”, ad una caratterizzata invece dall’eccesso, dal “più”. Di fatto il tratto del senza limite, tratto che peraltro caratterizza la nostra società dei consumi, è ciò che, al di là della differenza apparente, rende simili queste due polarità tra le quali oscilla il sintomo contemporaneo.
Perché dunque parlare di “sofferenze senza nome” quando invece tutto farebbe pensare al contrario, ovvero al fatto che i nomi del disagio si moltiplicano sempre più di giorno in giorno, di sostanza in sostanza, di disturbo in disturbo e così via? Effettivamente è forse meglio parlare di sofferenze senza nome proprio, indicando con questa formulazione il tratto anonimo e massificante che caratterizza le forme del disagio contemporaneo, legato anche ad una certa modalità di fare diagnosi basata sempre più sull’evidenza dei comportamenti più o meno conformi ad una norma ideale, piuttosto che sull’ascolto del soggetti presi uno per uno.
ACCOGLIERE LA SINGOLARITÀ DI CIASCUNO, UNO PER UNO.
“Uno per uno”, accogliere ogni soggetto nella sua singolarità, è la scommessa che cerchiamo di mettere in atto quotidianamente e da oltre 15 anni al Centro Psicoanalitico di trattamento dei malesseri contemporanei-onlus, un’associazione senza scopo di lucro che apre le sue porte a tutti coloro che intendono fare della sofferenza un’occasione di parola, di apertura e di instaurazione di un legame inedito, grazie al quale trovare nuove modalità di risposta a ciò che fa stare male.
Quando questo accade allora il sintomo, da anonimo e omogeneizzante, può ritrovare il suo tratto di singolarità assoluta, rivelando l’importante funzione che questo svolge nella vita della persona. La psicoanalisi considera infatti che il sintomo non sia solo un “nemico” da eliminare il più velocemente possibile, ma suppone che questo sia portatore di un messaggio e di un senso inconscio che si tratta di decifrare per cogliere ciò che di più intimo alberga nel soggetto e che attiene al suo desiderio. Per dirla diversamente, l’esperienza analitica propone di stringere una sorta di “nuova alleanza” col sintomo a partire dal metterlo in parola per arrivare a cogliere un sapere che si dice tra le righe del discorso e che, proprio tra le righe, può essere letto. In questa logica il sintomo viene ad essere non solamente ciò che fa soffrire il soggetto ma anche la porta di ingresso per una possibile ricerca di senso circa il ruolo che questo svolge nella propria vita, al punto talvolta da divenirne il perno centrale attorno a cui si fa ruotare tutto.
Venirne a sapere qualcosa di più circa le contingenze che hanno contribuito alla costituzione di un sintomo e circa la funzione che questo svolge nella propria economia psichica e relazionale, è la condizione analitica sia per ottenere effetti terapeutici che per modificare il proprio modo di relazionarsi nei più diversi ambiti: affettivo, lavorativo, famigliare. Solo allora il sintomo, da limite alla propria vita, può diventare risorsa inedita per affrontare la stessa in maniera più creativa e con meno sofferenza. Da elemento che rischiava di massificare e di inscrivere il soggetto in una categoria (anoressia, dislessia, DSA, attacchi di panico, tossicomane, Disturbo ossessivo –
compulsivo, depressione…) il sintomo messo al lavoro nell’esperienza analitica può trasformarsi in ciò che il soggetto ha più di intimo e proprio, in quanto esito prezioso dei propri legami e delle contingenze incontrate nella propria storia.

Sergio Caretto
Socio fondatore del Centro Psicoanalitico di trattamento dei malesseri contemporanei

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