Quando il cibo diventa un problema – parte 1
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Quando il cibo diventa un problema
Spesso sono le mamme a rivolgersi a me quando i giovani figli mandano i segnali di richiesta di attenzione attraverso l’astinenza o l’eccesso di cibo.
“Non so dove cominci il corpo
Sprecata
e dove finisca la mente.”
di Marya Hornbacher
Il cibo è la prima condizione di esistenza. E quando il rapporto con il nutrirsi si fa problematico, ad ogni età del nostro ciclo di vita, il quotidiano inevitabilmente si modifica. Dai momenti nei quali il neonato fatica ad attaccarsi al seno della mamma a quelli in cui un preadolescente se ne allontana in balia delle onde che lo sballottano in preda al mal di mare, la preoccupazione entra in campo velocemente.
«E se il bambino non aumenta di peso?», «Come può, con lo sport che fa, stare in piedi con due fette biscottate e uno yogurt?» sono alcune delle domande che si affacciano quando in presenza del cibo, per ragioni diverse, ci si confronta con il rifiuto di assumerlo.
I fattori che entrano in gioco nell’eziopatogenesi dei disturbi della condotta alimentare sono molteplici e l’inquadramento necessita di una valutazione clinico-anamnestica. Se l’anoressia può manifestarsi attraverso una marcata perdita di peso e un’intensa paura di ingrassare, la bulimia si distingue per la presenza di abbuffate e di condotte compensatorie inappropriate messe in atto per prevenire l’aumento di peso quali vomito autoindotto, abuso di farmaci lassativi e/o diuretici, il digiuno o un’eccessiva attività fisica.
Nel Binge Eating Disorder (disturbo da alimentazione incontrollata) invece gli episodi di ingestione di grandi quantità di cibo in poco tempo non sono seguiti da condotte di eliminazione o di controllo del peso. Senza soffermarci sulle diverse sfaccettature che possono assumere alcune alterate modalità di rapporto col cibo, come ad esempio l’ortoressia, descritta alla fine degli anni 90 dal medico americano, Steven Bratman, e ancora attuale ai tempi nostri, l’elemento dell’ossessione (in quel caso per un’alimentazione ritenuta “sana”) è comunque spesso ricorrente. Indipendentemente dal fatto che essa sia orientata sulla qualità degli alimenti o sul cibo che possiamo o non possiamo mangiare, il dispendio psichico ed energetico che trascina con sé impedisce alla persona di fare posto ad altro.
“Ti riempie il cervello questo pensare
La perfetta ossessione
continuamente
a ciò che non penserai, a ciò che non farai.
Occupa tutto il tempo, preservando il vuoto.”
di Jenefer Shute
In molti casi la questione del controllo si presenta in maniera estrema. Ricordo una giovane, reduce da ripetuti ricoveri in clinica alternati a periodi di sofferenza a casa, a due mesi dall’inizio della terapia, il giorno in cui mi disse che, in un certo modo, “stare nei limiti” era la sua stampella. Una determinazione oltremisura la sua, al pari di quella espressa da molte giovani imbrigliate in alcuni disturbi della condotta alimentare.
E se quella stessa ferrea volontà di resistere a un certo punto del cammino viene spostata sull’esistere, con fatica e grande sollievo il panorama può lentamente cambiare. I tempi sono diversi e ognuno fa il suo cammino. Riconquistare la capacità di essere soli quando il corpo e il cibo sono diventati luoghi di espiazione è un processo complesso che tuttavia aiuta a uscire dalla confusione.
L’esperienza della nostra corporeità è strettamente connessa al nostro modo di abitare il mondo. Mi torna in mente il viso delicato di V e i maglioni informi dentro ai quali nascondeva il terrore di lasciare crescere le sue forme femminili. E ricordo l’arrivo della sorpresa a illuminarle il volto qualche mese dopo l’inizio del nostro percorso quando durante un esercizio di consapevolezza corporea è stata accompagnata a sentire la differenza tra “il dire” e “lo stare”.
Gladys Pace
Psicologa-psicoterapeuta, specialista in Psicologia clinica
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