Quali parole per crescere

Era questo il titolo di una serata a cui fui invitata ad intervenire alcuni anni fa in occasione di un incontro rivolto ai famigliari e agli educatori in un asilo nido. Resta una domanda che ascolto ancora oggi sia in ambito privato sia istituzionale da parte di chi si interroga su quale funzione genitoriale sia opportuno svolgere, cogliendo l’importanza che le parole rivolte ai bambini rivestono nell’ardua impresa. L’impresa resta ardua e questo non è certo modificabile, Freud collocava l’educare fra i mestieri impossibili insieme al governare e al psicoanalizzare.
Si tratta di avere a che fare con l’impossibile nel senso del senza regole, senza manuale di istruzione. Riprenderò qualcosa che era emerso della passata esperienza augurandomi che produca interrogazioni e aperture in soggetti che quotidianamente svolgono una funzione educativa: insegnanti, mamme, educatori, nonni, papà, zii. Non esistono di certo, e meno male, manuali che possono dirci come fare con i bambini. Il saperci fare è qualcosa che apprendiamo a partire dall’ascolto del singolo bambino e delle sue esigenze. L’ascoltare l’altro non è una cosa così semplice, seppur basilare all’instaurarsi di un legame autentico, occorre accogliere la domanda al di là delle nostre convinzioni e saper attendere. Sempre Sigmund Freud lo insegnò molti anni fa: il bambino è il padre dell’uomo. Dunque a lui il ruolo di insegnare e a noi quello di apprendere.
Il linguaggio e la scoperta che ne fa il bambino è sempre qualcosa di straordinario e di particolare. I bambini imparano a parlare in modi diversi, hanno qualità differenti, ma tutti parlano a partire dall’essere stati in primo luogo parlati dagli altri. Il neonato, e il bambino poi, è immerso nel linguaggio fin da quando è ancora un feto, nel senso che di lui si parla e si parlerà a lungo.
Quanto incide questa parola? Credo si possa dire che incide molto, molto di più di ciò che pensiamo. Il discorso sul bambino può divenire il destino di una vita. In questo senso quando parliamo abbiamo una grande responsabilità. Parola e responsabilità non sembrano andare di pari passo oggigiorno, comunichiamo moltissimo (pensiamo agli sms, alle chat, ai social network), ma raramente questa comunicazione ha a che fare con la responsabilità di ciò che si enuncia. La psicoanalisi mi insegna che parlare è prendersi la responsabilità di ciò che si dice, e che parlare del bambino lo è ancora di più. Pensiamo a quante volte in buona fede diciamo: Marco proprio non mangia, si rifiuta di mangiare e lo diciamo al nido, alla nonna, all’amica ma più di ogni altra cosa lo diciamo a Marco che sarà certamente attento alle parole in modo particolare se le parole lo riguardano, se parlano di lui. Riflettiamo su questo. Più Marco si ascolta nelle parole dell’adulto come il bambino che non mangia e più tenderà ad essere il bambino che non mangia. Il bambino ricerca nelle parole e nei discorsi un’immagine di sé a cui aderire, che lo faccia essere proprio quel bambino lì, quello di cui si parla. Il punto è che la parola fissa qualcosa a livello del corpo e che ha un potere straordinario.
Certo non solo la parola, anche il non verbale è percepito dal bambino. Se gli diciamo di stare tranquillo con la nonna e siamo in realtà terrorizzati a lasciarlo: anche questo passa. Ma è solo a partire da una riflessione su come parliamo che possiamo modificare qualcosa a livello profondo, i cui effetti si sentiranno anche sul piano non verbale. Perché parliamo di Marco? Il punto non è che siamo cattivi e parliamo male di lui. Il punto è che il disagio senza nome che incontriamo nel bambino ci confronta con il bisogno di fissarlo da qualche parte e parlandone lo fissiamo, lo collochiamo. Tutti hanno bisogno di parlare, di lamentarsi per separarsi un po’ da ciò che fa enigma. Potrei dire così: più ne parliamo e forse meno siamo convinti che il problema di Marco sia il mangiare. Magari sta iniziando la scuola, la famiglia sta affrontando un trasloco, è nato il fratellino, stiamo lavorando tanto, e così via. Quello che voglio dire è che se diventa una questione per la mamma o il papà diventa una questione anche per il bambino. Occorre considerare che una lettura altra è possibile e andare oltre l’evidenza. Si può accettare che Marco non mangi a partire dal porre l’attenzione su altro e produrre talvolta, senza saperlo, le condizioni perché possa iniziare a mangiare o ancora prendere in un altro modo il fatto che mangi o meno. Non esistono regole prestabilite, ma ciascuno può prestare un po’ di attenzione a ciò di cui parla e considerare che i discorsi in atto hanno delle conseguenze, per tutti non solo per i bambini. Riconoscere questo è iniziare a inventare le proprie soluzioni.
Del bambino si parla prima ancora che nasca e lo si immagina. Sarà biondo o castano, sarà uguale a me, diventerà un calciatore, e così via. Il nome stesso che scegliamo ha una storia, dice del posto che occuperà il bambino nella famiglia. Parlando diamo corpo a qualcosa di un immaginario che può incontrare il desiderio più intimo del soggetto o rivelarsi molto distante. È essenziale accogliere che immaginare è importante quanto poi accogliere il reale delle cose, nella loro diversità dall’idea iniziale.

Alessandra Fontana
Psicoterapeuta
psicoanalisifontana.com

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