La vita oltre il tumore – parte 1
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La vita oltre il tumore
Le malattie sono sempre portatrici di informazioni, di scoperta di sé e possono trasformarsi in nuovi punti di partenza, anche il tumore.
Desiderio di cancellare quel giorno dalla testa
Quando la speranza si affaccia all’orizzonte del mondo possiamo sentire il movimento. Lì si arriva a smuovere la nostra sensibilità e, come attraversati da un flusso d’acqua che scorre e ci spinge, ci scopriamo a riprenderci lo spazio vitale che, dal momento della diagnosi infausta, pensavamo di avere inesorabilmente perduto. Vorrei cancellare quel giorno dalla mia testa, dalla mia vita.
Questo è il desiderio che, potente, può esplodere quando a un uomo o ad una donna viene riconosciuta una malattia ad alto rischio di mortalità. È come un taglio che interrompe il flusso della vita, un quotidiano che si rovescia, uno schianto che può togliere il respiro. Eppure nonostante la violenza che quel paziente sente di avere subito, dopo lo schianto, il respiro continua a ossigenare quella stessa vita che, da un’altra prospettiva, si era vista interrotta.
E lì la scoperta della resilienza è più frequente che rara. La malattia rompe un ordine e sembra crearne uno suo. Lo psicoterapeuta tedesco Thorwald Dethlefsen (Il destino come scelta, Edizioni Mediterranee, Roma, 2000) scrive che le malattie sono sempre portatrici di informazioni e che ci mostrano dove abbiamo abbandonato la nostra orbita.
E non è il solo a documentare come la malattia possa diventare un luogo di consapevolezza, di misura dei propri limiti, ma resta comunque il fatto che quando ci si accorge di essere stati colpiti da qualcosa di esterno, che è anche interno, il desiderio è spesso quello di restare lontano mille miglia dalla consapevolezza.
“Però la mente funziona così:
Appunti per un naufragio
normalizza, altrimenti
si impazzirebbe”
di Davide Enia
Caso clinico
La Signora D è arrivata in studio disorientata da una comunicazione inattesa a partire dalla quale la sua vita «in pochi attimi si è sgretolata». Aveva trentanove anni. E gli ultimi due sono trascorsi a completare il ciclo di cure che l’hanno vista affrontare, con un’energia inesauribile, l’incontro con il tumore al seno che l’aveva colpita quando sua figlia aveva appena compiuto 3 anni.
I suoi familiari e gli amici si chiedevano dove prendesse la forza per gestire la sua vita, la maternità, la famiglia e infine il lavoro che, con le pause necessarie dettate dalle terapie, era riuscita a mantenere. Impiegata presso una casa editrice poteva gestire l’attività anche da casa, ma il tenere i contatti con i colleghi e gli autori è stata un’ulteriore spinta a lottare contro una diagnosi che pareva non essere riuscita a fermarla, fino al giorno prima: quello in cui aveva deciso di chiamarmi.
Il tono della sua voce, sia al telefono che nelle prime tre sedute di assessment (un certo numero di sedute che seguono il primo contatto telefonico nel corso delle quali la persona accolta mette a fuoco la sua domanda e, in base a quanto emerge, il terapeuta valuta se e come procedere), sembrava ancorato su una sola nota. E l’immagine che mi arrivava dal racconto di sé pareva una foto in bianco e nero, un album di foto che la ritraevano perennemente in movimento, da un posto all’altro, da un impegno all’altro, in corsa.
È stato solo al quarto incontro che, con un’intuizione che lo spazio di ascolto e cura spesso ci permette di cogliere, rivelò a me e a sé, in un lampo, che il suo desiderio sarebbe stato quello di fermarsi. Da quando aveva 15 anni il suo sogno era quello di partire da sola un po’ all’avventura per scoprire l’Europa prima e poi magari altri paesi, ma per una ragione o per l’altra non aveva mai viaggiato. «Ho sempre sognato un biglietto aereo per l’ovunque» mi disse un giorno, mentre un sorriso velato le rischiarava il volto.
Da ragazzina era la malattia della mamma e la necessità come figlia maggiore di seguire la sorella più piccola nei periodi di ricovero oltre a dover badare alla casa, seppure con l’aiuto del padre. Con il matrimonio, celebrato a soli 19 anni, sono stati invece i problemi fisici del marito a favorire la chiusura del suo sogno nel cassetto. A un certo punto però ci si accorge che la rinuncia come scelta non sempre arriva a sostenerci all’infinito nel processo evolutivo.
Ed è a partire dal riemergere di quel ricordo e di quel bisogno che D ha avviato il suo percorso di psicoterapia. Dalla necessità di sostegno nell’affrontare il ripresentarsi del tumore, il cammino per lei si è concluso con l’avvio di una serie di microcambiamenti di cui conservo il ricordo e le foto delle cartoline che mi ha spedito da ogni capitale visitata negli anni successivi. «È bello accorgermi come da questa esperienza devastante io sia arrivata ad offrirmi un dono prezioso che tanto ho desiderato e al quale pensavo di avere rinunciato» mi ha scritto due anni fa da Parigi.
Gladys Pace
Psicologa-psicoterapeuta, specialista in Psicologia clinica
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