La fiducia nella cura – parte 2
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Avere fiducia nella cura
Fiducia nella cura: la differenza la facciamo noi, lasciando andare le paure che ci ingabbiano o accogliendo uno sguardo che può darci un appiglio per tornare a sorridere.
“Nel momento in cui mi fido, faccio
Avere fiducia
una scommessa; nulla mi garantisce
che sarà vincente; posso anche perdere.
Ma scommettendo mi concedo almeno
la possibilità di scoprire l’altro e,
ancor più, di scoprire me stesso.”
di Michela Marzano
«Come mai mi guarda in quel modo?» mi chiese la signora R quando iniziò a parlare di un periodo in cui, da ragazzina, i compagni di scuola presero a prenderla in giro per il modo in cui si vestiva. E qualche seduta dopo ritornò sull’imbarazzo che sentiva ogni volta in cui, guardandomi negli occhi, si accorgeva di essere ascoltata. Lo sguardo, l’ascolto e le parole “per dirci” sono alcuni dei territori che, percorsi con cura, possono rivelarci come muoverci più agevolmente nella relazione con noi e con l’altro quando la fiducia, in un momento o nell’altro della nostra esistenza, è stata in qualche modo ferita.
Spesso quando utilizzo il metodo “Scrittura e Cura” (che prevede l’ausilio della Scrittura nell’accompagnare il soggetto verso la cura di sé attraverso sedute individuali o sedute di gruppo) in ambito formativo con professionisti dell’area sanitaria, il collegamento con esperienze passate, personali e professionali, apre importanti spiragli proprio a partire da situazioni che al centro vedono la fiducia, sia quella vissuta pienamente, che quella più dolorosamente tradita.
“La nostra fragilità è radicalmente ferita
Le parole che ci salvano
dalle relazioni che non siano gentili e umane…
Non siamo monadi chiuse, e assediate,
siamo invece…
monadi aperte alle parole
e ai gesti di accoglienza degli altri.”
di Eugenio Borgna
Eravamo a metà del cammino di una psicoterapia che si concluse in poco più di un anno quando al signor V fu chiaro che, a partire dal suo esser riuscito a riporre fiducia nel suo percorso verso la cura, lo scopo della terapia guardava a una direzione ben diversa da quella esplicitata quando aveva detto «Se mi trovo bene, da qui non mi muovo!». E la consapevolezza di quanto la psicoterapia possa aiutarci a mettere a fuoco e ad affrontare il timore della dipendenza purtroppo arriva spesso al termine del cammino.
Questo tipo di paura è sovente all’origine dell’interruzione di percorsi dove la fiducia fatica a concedersi. È stato proprio correndo il rischio di quel salto nel buio che implica il dare fiducia che V iniziò a muoversi fuori dalla stanza della terapia portando con sé uno sguardo più libero dal timore di ammalarsi che per anni l’aveva messo alle strette.
Non è semplice andare oltre il conosciuto e torno alle parole condivise dalla signora R. «Mi piacerebbe rompere quello specchio nel quale per tanti anni mi sono vista riflessa». È uno specchio crepato quello che ha portato nello spazio della terapia. L’abbiamo tenuto con noi il tempo sufficiente a riconoscere quanto oggi fosse diventato inadatto a restituirle un’immagine dai confini più ampi di quelli che, da bambina prima e da ragazzina poi, l’avevano fatta sentire continuamente a disagio.
Ed è stato al termine di un gruppo di Scrittura e Cura nel quale abbiamo lavorato sull’immagine di sé che lei ebbe l’opportunità di raccogliere e conservare quanto il gruppo è arrivato a restituirle. Lì, nel dare fiducia, ha preso per sé la meravigliosa possibilità di guardarsi attraverso una moltitudine di specchi.
“La vita si vive nell’incertezza,
L’arte della vita
per quanto ci si sforzi del contrario.”
di Zygmunt Bauman
C’era una volta un uomo che stava scalando una montagna… racconta nel libro Le tre domande della felicità, (Rizzoli, 2009), Jorge Bucay, psicoterapeuta argentino, riportando la storia di un uomo che durante una salita complicata, sganciatosi inavvertitamente dalla corda di sicurezza, cominciò a scivolare, sbattendo contro le pietre in mezzo a una valanga di neve. In questa discesa accelerata la corda all’improvviso si fermò.
Gli era tuttavia impossibile guardarsi intorno così come arrampicarsi lungo la corda per cercare di raggiungere il rifugio, finché una voce lo raggiunse. Una voce dentro di sé gli disse. «Salta!». Saltare per lui significava “morire sul colpo”. La voce però continuava: «Salta! Salta!». Il suo impulso fu di aggrapparsi ancora più forte. La voce continuava e l’uomo si opponeva. Il mattino seguente lo scalatore fu trovato quasi morto congelato, paradossalmente aggrappato alla sua corda… a meno di un metro da terra. A volte lasciare andare quello a cui ci aggrappiamo può salvarci la vita.
Altre volte le prove che questa ci presenta possono essere brutali e inaspettate. E penso alla storia di Frank Bruno (Carnet de voyage d’un homme libre, Edition Clémentine, 2014), quando racconta che avrebbe potuto tranquillamente passare la sua vita in un ufficio e divenne invece istruttore subacqueo e per un insieme straordinario di circostanze si trovò a vivere sfide via via più temerarie per un uomo cui è stata amputata una gamba.
La lista dei suoi viaggi intorno al mondo è troppo lunga da riportare. Le sue parole invece no, quelle le lasciamo libere di attraversare paesi e continenti. «La mia differenza è la mia forza!». E spesso la differenza la facciamo proprio noi, lasciando andare le paure che ci ingabbiano o accogliendo uno sguardo che può dirsi o darci un appiglio per tornare a sorridere, ignari del tempo che scorre, come bambini, anche se i compleanni festeggiati sembrerebbero mostrarci che bambini non lo siamo più.
Gladys Pace
Psicologa-psicoterapeuta, specialista in Psicologia clinica
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